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“Sulle tracce dell’assassino”: intervista alle autrici e registe della docuserie su Yara Gambirasio

Yara Gambirasio, intervista alle autrici della docuserie in onda su Nove
Colleghe e amiche. Una sorta di sorelle Giussani del crime. La differenza è che loro non devono inventare niente: i loro crimini sono già stati commessi nella realtà

Due giornaliste non interessate ai like, ma a raccontare storie, a raccontare persone e vite. Perché anche quando i media parlano di efferati delitti, non si occupano di “notizie”, ma di esseri umani. Per il ciclo Nove Racconta, a dodici anni dal giorno della scomparsa di Yara Gambirasio, Marina Loi e Flavia Triggiani hanno curato la regia della docuserie in due parti “Sulle tracce dell’assassino. Il caso Yara” della quale sono anche le autrici, in onda questa sera e l’8 dicembre alle 21.25 in prima tv esclusiva sul Nove e disponibile in anteprima su discovery+.

“Quello di Yara Gambirasio – racconta Marina Loi –  è uno dei casi più “mediatici” degli ultimi anni, per il quale, forse, non è stata ancora scritta la parola fine”.

Come nasce la vostra passione per il crimine?

Marina: sin da piccola guardavo film o sceneggiati gialli, poi ho iniziato a leggere i classici. Come Simenon, Du Mourier, Poe e altri. Mi hanno sempre appassionato i percorsi investigativi, ma anche quelli psicologici che cercano di entrare nella mente dell’assassino.

Flavia: ho sempre voluto fare la giornalista investigativa, e agli inizi ho affiancato dei colleghi esperti che mi hanno fatto appassionare ancora di più.

Come vi siete incontrate e quando avete deciso di fare squadra?

Ci siamo incontrate più di 10 anni fa. Eravamo autrici in un programma e presto abbiamo capito che le nostre capacità si integravano in modo naturale. Da quel momento abbiamo iniziato a scrivere format, a costruire una carriera che si basasse solo sulle nostre forze. Non è stato facile ma ci siamo riuscite. Negli ultimi anni siamo diventate un “brand”, scriviamo e facciamo la regia di molti documentari e “sforniamo” progetti con una energia incredibile.

Yara Gambirasio, intervista esclusiva alle autrici della docuserie in onda su Nove

Quali sono le caratteristiche di ognuna? In che modo vi completate?  

Marina: Flavia è precisa, metodica, sempre in tensione, io sono più tranquilla e disordinata, del resto lei vive a Milano e io a Roma e noi rispecchiamo le caratteristiche di queste due città.

Flavia: siamo assolutamente complementari, è una macchina perfetta, dove la benzina è il fuoco che abbiamo dentro. Siamo appassionate al lavoro che facciamo, non stacchiamo praticamente mai. È un lavoro creativo che deve essere però guidato dalla concretezza.Quando lavoriamo ad un documentario entrambe facciamo tutto, ma in genere Marina lavora più sulla scrittura e io più al montaggio.

Dove invece vi scontrate?

Marina: non ci scontriamo mai. A volte Flavia si spazientisce perché deve ricordarmi le cose da fare, tiene tutto sotto controllo. Ma andiamo veramente d’accordo anche perché siamo, oltre che colleghe, grandi amiche . Tanti ci chiedono come facciamo: effettivamente non credo che esistano coppie di donne registe e autrici. Non so perché le donne non facciano squadra, solitamente. Noi ci riusciamo e questo spiazza tutti, soprattutto gli uomini.

Yara Gambirasio, intervista esclusiva alle autrici della docuserie in onda su Nove
Marina Loi e Flavia Triggiani, autrici e registe della docuserie su Yara Gambirasio – Photo Credit: Sibilla Mercuri©

Il giornalismo investigativo è settore maschile. Pensate che un occhio femminile veda diversamente?

Soprattutto quando sono coinvolte donne, gli uomini tendono ad avere pregiudizi, a cercare prove che confermino uno schema, magari inconsapevolmente, viziato?

 Purtroppo l’occhio maschile può avere pregiudizi in ogni settore, è uno sguardo diverso, a volte un po’ stereotipato, come dice lei “viziato”. È ovvio che le donne nella maggior parte dei casi hanno una sensibilità diversa. Per quanto ci riguarda crediamo di portare una visione femminile nel nostro lavoro, che forse si traduce in maggiore empatia nei confronti delle vittime e dei parenti, ma anche in voglia di approfondire, non fermarci alla prima risposta.

Vi occupate di casi fortemente mediatici. Quanto mina la capacità di giudizio l’esposizione mediatica?

La morbosità di un pubblico che, più che la verità, cerca la conferma alle proprie tesi, influisce? E quanto è vincolante un mercato che ha sempre più bisogno di scoop da vendere piuttosto che notizie da divulgare?

 L’esposizione mediatica di un caso sicuramente influisce su tanti aspetti, dalle indagini alla percezione dell’opinione pubblica. Per noi è invece solo un risvolto del caso: lo mostriamo, lo interpretiamo e lo documentiamo nei nostri lavori. Rifuggiamo la morbosità, non crediamo che il nostro pubblico cerchi questo. I nostri documentari si basano sempre su casi chiusi, con condanne definitive, che ripercorriamo cercando di mantenere una certa oggettività. Del resto dalla sua nascita, quando ancora non esisteva il termine “documentario” i filmati si chiamavano “dal vero”. E in molti li chiamano “non fiction”. Sappiamo bene che l’oggettività pura non esiste e che già dove esiste un montaggio si innesca una narrazione, ma è comunque una narrazione alla ricerca del vero.

Yara Gambirasio, intervista esclusiva alle autrici della docuserie in onda su Nove
Un frame della docuserie “Sulle tracce dell’assassino. Il caso Yara” con la ricostruzione degli ultimi spostamenti di Yara Gambirasio

Per quanto attiene agli scoop non ci troviamo nella posizione del giornalista che ogni giorno deve trovare “la notizia”. Il mercato a cui ci rivolgiamo in molti casi non cerca il sensazionalismo a tutti i costi, ma la capacità di raccontare i fatti. E questa è una grande libertà perché possiamo fare il nostro lavoro con onestà e rispetto del pubblico.

Siete giornaliste che lavorano in televisione

Poi ci sono persone di spettacolo, che si occupano di programmi televisivi che raccontano storie. Questa mancanza di confini, cosa comporta nel giornalismo? Sensazionalismi e storie commoventi fanno audience, ma quale effetto hanno sulla qualità della notizia?

 Vi è una grande differenza tra i programmi generalisti della tv e i documentari. La tv trasmette a ritmo continuo, deve sempre cercare quel qualcosa in più e a volte sconfina, esagera, in questa spasmodica corsa all’audience. I casi di cronaca diventano dei racconti seriali, una sorta di feuilleton. Questo flusso continuo può compromettere la qualità della notizia. Spesso non è tanto il “cosa” ma il “come” una notizia viene raccontata, il soffermarsi su particolari insignificanti che suscitano morbosità. Il nostro lavoro è più riflessivo, abbiamo sempre la visione totale del caso, atti giudiziari, dichiarazioni, autopsie. Studiamo migliaia di pagine, intervistiamo decine di persone, per poi ricomporre il puzzle. In realtà è la storia che guida noi, e non viceversa. I nostri telespettatori vogliono vivere un pezzo di storia, di vita. È una esigenza di conoscere, di capire il lato oscuro che è in ognuno di noi.

Avete intervistato Patrizia Reggiani. La famiglia Gucci ha fortemente criticato il film.

Voi l’avete raccontata come una donna carismatica, di gran classe. In un’intervista a Elle, avete dichiarato: “Lei è molto eclettica e particolare, ma sempre gentile. Un giorno a telecamere spente ci ha detto: “Nella vita ci può essere solo un grande amore: il mio è stato Maurizio” ed era sinceramente commossa.”  È una donna che, per quanto abbia scontato la sua pena, è stata capace di premeditare un omicidio. Una donna così fortemente manipolativa, quanto può influenzare un giornalista, anche se professionale e preparato?

Può incuriosire la persona, ma non influenzare il giornalista. È vero, ci siamo tutti sorpresi quando è apparsa difronte a noi. Aveva un carisma, una sorta di luce. Abbiamo capito come mai nella vita aveva ricevuto tanti “sì”. Ma questo non ci ha condizionato nel raccontarla nel documentario. Non subiamo il fascino del male, mai. Nell’intervista abbiamo solo rilevato che era una donna particolare, con tante zone oscure ma anche dei momenti di luce. In Lady Gucci abbiamo ripercorso senza esitazioni il crimine che ha commesso, non abbiamo avuto un occhio benevolo, difatti durante l’intervista le abbiamo fatto anche molte domande “forti” a cui lei ha risposto con sconcertante sincerità, come si può vedere nel documentario. Quello che colpisce sempre sono le contraddizioni di una persona: quelle parole riportate, non davanti alle telecamere, sul suo unico grande amore, ne sono una prova esemplare.

Il caso che avete seguito che vi ha maggiormente impressionato?

 Marina: Tutti i casi sono impressionanti, ma il caso di Desirée Piovanelli mi ha letteralmente devastato. E poi il serial killer Minghella: sembra uscito dalla sofisticata penna di un grande giallista.

Flavia: il caso di Yara Gambirasio. Pensare che la giovanissima ginnasta è morta di stenti in quel campo è qualcosa di insostenibile.

Un caso sul quale avete cambiato idea o sul quale, a seguito delle vostre indagini, vi sono sorti dubbi

 Marina: Sul caso Piovanelli il padre e alcuni giornalisti hanno adombrato delle piste alternative. Ed anche il team difensivo di uno dei condannati ha posto domande interessanti, in particolare sull’assenza del DNA dell’assistito sul luogo del delitto. Non ho dati oggettivi per nutrire dei veri dubbi, ma credo che il padre di una vittima debba essere ascoltato.

Flavia: fino ad ora più che dubbi ho trovato conferme. Nei casi che abbiamo trattato, nonostante alcuni presentino degli interrogativi forti, per esempio quello della Uno bianca, studiando le carte non ho trovato elementi che possano veramente avvalorare tesi alternative. Naturalmente siamo sempre aperte a cambiare le nostre posizioni.

Cosa vi fa scegliere un caso da trattare? Ad esempio, dell’omicidio di Yara Gambirasio cosa vi ha interessato?

Ne avevano parlato tutti in modo morboso, cercando qualsiasi particolare, anche quelli inutili, fuorvianti o non pertinenti. Cosa c’era ancora da raccontare, o da raccontare diversamente?

Scegliamo i casi che suscitano interesse in noi. Del caso di Yara si parla da anni senza soluzione di continuità. Anche in questi giorni sono uscite nuove notizie. Giornali, trasmissioni televisive, siti web, il caso è onnipresente e a tutt’oggi divide l’opinione pubblica e i giornalisti. Sono tre le posizioni di fronte a questo caso: innocentisti, colpevolisti e coloro che non potendo esprimere un giudizio incontrovertibile contestano la modalità in cui sono state condotte le indagini, il processo e lo “sbattere il mostro in prima pagina”. Una enorme sovraesposizione mediatica, morbosità, particolari inutili, gogne mediatiche hanno contraddistinto questa infinita narrazione. Noi volevamo semplicemente raccontare diversamente, nel nostro stile, una storia che ha segnato l’Italia. Un caso unico nel suo genere: per il tipo di indagini che hanno fatto storia, per la drammaticità dei fatti, per i risvolti mediatici. E per ricordare Yara Gambirasio attraverso le sue parole, la sua giovinezza, le sue passioni. Cercando di evitare la tv del dolore e la retorica che paradossalmente di sovente mascherano cinismo e volgarità.

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