Gli Hotel Supramonte non sono una semplice tribute band. Il gruppo è riconosciuto dalla “Fondazione De André” ed è composto da musicisti straordinari, che quando si esibiscono vivono e fanno vivere la magia dell’universo poetico di Faber, anche grazie alla voce del frontman Luca Cionco
Lunedì 22 novembre gli Hotel Supramonte saliranno sul palco del Teatro Olimpico di Roma per un concerto che renderà omaggio all’album “Non al denaro non all’amore né al cielo”, a 50 anni dalla sua prima pubblicazione. Il loro tour riprenderà poi a gennaio 2022, con tappe in altri teatri italiani. La band prende il nome dalla canzone scritta da Fabrizio De André dopo il sequestro per mano dell’Anonima Sarda, di cui fu vittima con la moglie Dori Ghezzi tra l’agosto e il dicembre 1979.
Gli Hotel Supramonte, nati nel 2013, si sono progressivamente affermati come una delle formazioni più accreditate nella diffusione della musica di Faber. Hanno portato le sue canzoni sui palchi di molti teatri italiani, cercando di restituire, con intensità e calore, il grande patrimonio artistico che il poeta e cantautore genovese ha lasciato.
Gli Hotel Supramonte e il tour “Non al denaro non all’amore né al cielo”
Gli Hotel Supramonte sono Luca Cionco, voce e chitarra. Antonello Pacioni, chitarra classica e acustica, bouzouki e mandolino. Alessandro Errichetti, chitarra elettrica e acustica e mandolino. Simone Temporali, tastierista e corista. Serena Di Meo, violinista e corista. Alessandro Famiani alla fisarmonica, Roberto Vittori ai fiati e alle percussioni. Glauco Fantini, bassista e corista, Edoardo Fabbretti, alla batteria e alle percussioni, e la vocalist Giorgia Zaccagni.
Tra le loro collaborazioni, quella con Neri Marcorè, che nel 2017 ha partecipato al concerto che hanno tenuto a Viterbo, di fronte a tremila persone. E poi quella con Michele Ascolese ed Ellade Bandini, storici collaboratori di Fabrizio De André, e con Pietro De Silva, interprete tra gli altri del film premio Oscar “La vita è bella”.
Lo show al Teatro Olimpico di Roma
Lunedì 22 novembre gli Hotel Supramonte si esibiranno al Teatro Olimpico di Roma, proponendo dal vivo l’ascolto integrale dell’album “Non al denaro non all’amore né al cielo”, pubblicato l’11 novembre 1971. Un disco che contiene brani senza tempo come “Un matto”, “Un giudice” e “Il suonatore Jones”, e per il quale De André si è ispirato all’Antologia di Spoon River di Masters. Lo show comprende anche alcuni classici del repertorio di Faber, oltre a parti recitate sul palco dagli attori Pietro De Silva e Camilla Bianchini.
Le altre tappe del tour
Dopo Roma, il tour teatrale avrà altre tappe: l’11 gennaio 2022 gli Hotel Supramonte saranno al Teatro Nuovo Giancarlo Menotti di Spoleto (PG). Il 15 gennaio al Teatro Caffeina di Viterbo, e il 7 aprile al Teatro Duse di Bologna. Il calendario è in aggiornamento.
Intervista a Luca Cionco, voce degli Hotel Supramonte
Abbiamo scambiato qualche battuta con Luca Cionco, il frontman degli Hotel Supramonte, che interpreta le canzoni di De André con una voce che mette i brividi in chi lo ha amato e lo ama. Un timbro e un’intonazione straordinariamente somiglianti a quelli di Faber, pur non facendone un’imitazione.
La vostra band Hotel Supramonte è riconosciuta ufficialmente dalla “Fondazione De André”. Ci racconti come è nata?
Nacque in un modo inaspettato ed originale. Mio fratello Simone, cuoco, mi mandò a prendere della rucola al Supermercato di Gradoli. Simone sapeva Edo (Edoardo Fabbretti, n.d.a.) lavorava lì, anche perché è l’attività di famiglia, e sapeva pure che era un batterista. Me ne aveva parlato consigliandomi di costruirci un progetto, ma inizialmente sorvolai sulla questione. Insomma, mi trovo con un pacco di rucola in mano diretto verso la cassa e compare davanti a me l’ombra di Edoardo, ci doveva essere anche lui da qualche parte, perché mi disse: «Tu sei Luca». Al ché feci due più due e risposi: «Tu devi essere Edoardo» e devo anche aver azzeccato in quanto esordì con «dovremmo creare un gruppo insieme, conosco già il bassista, è giovane ma è forte, si chiama Glauco».
Nel tragitto per arrivare al ristorante di mio fratello, nemmeno dieci minuti, in mente riecheggiava un nome per la nuova situazione musicale aprendomi piacevoli scenari, quindi ho preso il telefono e scritto subito a Edo non appena arrivato: «Gli Hotel Supramonte sfonderanno», lo ricordo come fosse successo oggi stesso e lui rispose semplicemente «Wow, il nome è stupendo». C’era già un chiaro segnale sulla strada che di lì a breve avremmo intrapreso insieme, era la primavera del 2013.
Fabrizio De Andrè è scomparso da più di 20 anni, eppure le sue canzoni continuano ad essere amate anche dai giovani, come testimoniano i vostri concerti spesso sold out. Qual è il segreto della sua attualità?
Penso che molto dipenda dal fatto che abbia saputo cogliere le difficoltà umane e quelle esigenze inconsce che spesso sono prive di domande, riuscendo a elaborarne non tanto semplicistiche risposte, quanto complesse domande, le quali spingono al ragionamento e spesso al miglioramento di sé in qualità di essere umano.
Credo che riesca a parlare di valori universali che, in quanto tali, si trovano fuori dal tempo e lo spazio, attraversano secoli e coscienze, come è il messaggio di amore, soprattutto verso le persone che più ne hanno bisogno, di quell’amore slegato dal sesso, del Sentimento umano che non cerca giocoforza la corrispondenza dell’altro, ma ha il fine ultimo di amarlo, perché “l’amore ha l’amore come solo argomento”.
Si può trovare l’amore nel rispetto per le altrui scelte, convinzioni e modi di essere, senza mai giudicare, ma accogliendo e comprendendo. Si vede amore nella solidarietà verso le persone o le “categorie” più deboli, per quanto il termine categoria rimandi a concetti inclusivi/esclusivi, e questa è una vera manifestazione d’amore perché i più deboli, a differenza dei potenti, non hanno niente da offrirti in cambio.
I valori di cui parla Faber sono universali, ma i modelli sono cambiati…
Attualmente, a mio parere, vedo che c’è un grande attaccamento all’idea successo e un moto importante verso l’autorealizzazione, ma non in qualità di essere, quanto nell’ostentata quantità di averi. In molti desiderano denaro e ciò che questo può comprare, come auto, ville, gioielli e vacanze. Credo che si stia inseguendo un modello di felicità sintetica, fondata su meri aspetti esteriori, di quella felicità che dura un attimo perché subito spodestata da altri bisogni da soddisfare. Abbiamo, sempre a mio parere, modelli fuorvianti che inseguiamo perché si è interiorizzato ormai il concetto che l’autorealizzazione sia in conseguimento di uno status symbol.
Ci stiamo dimenticando che se la felicità non è dentro di noi, non possiamo trovarla, né comprarla fuori. Possiamo comprare l’eccitazione, l’adrenalina e quel briciolo di soddisfazione che presto passa, così come scade l’oggetto che genera quelle abbaglianti conseguenze, ma poi saremmo comunque scontenti poco dopo e vorremmo la versione nuova credendo che possederla ci renda migliori, più fighi e appagati. Come può arrivare al traguardo un corridore che vaga nel vuoto?
“Non al denaro non all’amore né al cielo” in questi giorni ha compiuto 50 anni. Qual è la canzone di questo album che ti emoziona di più?
Non è mai facile rispondere a domande simili, ma credo che dipenda dal momento vissuto, quindi dallo stato d’animo derivante gli eventi che ci vedono protagonisti in un determinato periodo di vita. Attualmente “Un chimico” è quella verso la quale nutro emozioni più vivide, forse perché parla di un uomo troppo razionale che nella ricerca della perfezione non si perde nell’amore, considerando “idioti” coloro che “muoion d’amore”, ovvero quelli che si lasciano cadere a quell’immenso portato emotivo. Vedo anche, in quell’uomo, colui che non volendo perdersi non riesce mai a trovarsi, perché se non amiamo non vale la pena fare questo viaggio.
Ci racconti qualcosa sulle vostre collaborazioni con Neri Marcorè e con Michele Ascolese ed Ellade Bandini, storici collaboratori di Faber?
Sono state giornate intense che ci hanno permesso di condividere emozioni e percorsi, scoprendo anche qualche storia inedita, e inenarrabile, riguardo la vita dei grandi cantautori. Quello che più colpisce, in questi grandi professionisti, è che sembrano non sentire stanchezza o età, quasi come se la musica, quindi l’arte, riesca a mantenere giovani coloro che vi si dedicano.
Cosa diresti oggi a Fabrizio De André, se potessi parlargli?
Da dire avrei poco e forse troppo da chiedere. Gli direi che è cambiato tutto, ma solo da un punto di vista tecnologico, perché in fondo è sempre la solita parata di opportunisti autocelebrativi che si lodano di potere e illudono di promesse che sanno di non poter mantenere.
Gli racconterei che la disuguaglianza c’è ancora ed è forse più stringente. Si è creato un divario oceanico tra coloro che si stanno comprando il sistema solare e coloro i quali del sole percepiscono le scottature non avendo un tetto o coloro i quali il sole lo desiderano nelle notti gelate sotto i ponti.
Gli direi cose che lui ha insegnato a me e altre che conosce meglio. Cambiano gli attori, ma le maschere in scena sono sempre le stesse e, se vestiti di potere, spesso fanno paura. Cosa gli chiederei? «Mi hai lasciato qualche testo sul quale possa apporre una firma?»
E cosa pensi direbbe lui della società attuale?
Credo esordirebbe con «Belìn!». È stato sempre un po’ fuori dagli schemi: riusciva a leggere tra le righe e descrivere con creatività sia il circostante. Come se avesse due lenti e riuscisse al contempo a focalizzare il tutto e il particolare. Potrebbe parlarci di quel 60% della popolazione mondiale che non riesce ad arrivare all’acqua potabile cantando del cielo e delle stelle. Oppure potrebbe parlarci del nulla cosmico verso cui sembra ci stiamo dirigendo, magari contestualizzandolo in una rilettura di “Delitto e Castigo”.