Francesca De Sanctis, ex vice capo Cultura de L’Unità, racconta a Wondernet Magazine la sua “storia al contrario”: la sua parabola lavorativa, conclusasi nel 2017 con la chiusura dello storico giornale ma senza licenziamento, motivo per cui oggi, come altri ex colleghi, vive in una sorta di limbo. Le difficoltà di reinventarsi come giornalista freelance, e la lotta contro la miastenia, una malattia autoimmune che non le ha però impedito di diventare mamma.
«Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio. Mi sono convinto che bisogna sempre contare solo su sé stessi e sulle proprie forze (…) Che occorre proporsi di fare solo ciò che si sa e si può fare e andare per la propria via». Inizia così, con le parole di Antonio Gramsci al fratello Carlo (Lettere dal carcere), il libro di Francesca De Sanctis “Una storia al contrario” per Giulio Perrone Editore.
“Una storia al contrario” è la storia di un giornale e di un mondo che cambia. Il racconto del canto del cigno dell’Unità, un quotidiano che aveva fatto della lotta e della resistenza una ragion d’essere. Come molti dei suoi giornalisti: dal suo fondatore Antonio Gramsci, a Italo Calvino, Margherita Hack, Dacia Maraini, Pierpaolo Pasolini, Cesare Pavese, Elio Vittorini.
Ma un giornale non è solo una testata, non sono solo pagine scritte: dietro, dentro, ci sono persone, vite umane, sogni, delusioni, gioie, sofferenze, ideali, passione. Dentro l’Unità c’era anche Francesca De Sanctis, giornalista vicecapo delle pagine cultura: una donna abituata a lottare e a “resistere”, a non “cedere all’urto”. E Una storia al contrario è anche la sua storia: di donna lavoratrice, cassintegrata, moglie, madre, malata di miastenia gravis.
«Ho scritto per raccontare la gioia di una venticinquenne che firma il suo primo contratto giornalistico e il dolore di una quarantenne cassintegrata. Ho scritto cosa è stato smettere di farlo, smettere di scrivere per lavoro, per vivere, ho preso carta e penna e ho scritto del corpo che cambia mentre fa spazio a una malattia, a una bambina, poi ancora a una bambina». Così all’inizio del libro.
Il resto, Francesca ce lo racconta in una intervista ben presto trasformata in una informale chiacchierata.
«Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio. Che occorre proporsi di fare solo ciò che si sa e si può fare e andare per la propria via». È quello che hai fatto?
Francesca De Sanctis: È ciò che ho fatto. Questa di Gramsci è una frase che mi indica la strada. La prima cosa da fare è rimboccarsi le maniche, tirare fuori la forza che abbiamo dentro. Ce l’abbiamo tutte: dobbiamo avere solo il coraggio di usarla. Ho trasformato la rabbia in sfida, dimostrando a me stessa che potevo farcela. Sono partita da quello che avevo: la mia professionalità acquisita negli anni. Ho cercato di tirarla fuori e di usarla. Collaborare è fondamentale. Soprattutto oggi, dopo questa pandemia, da soli non si va da nessuna parte. Nella vita sono fondamentali certi incontri, di persona o nei loro scritti, e la sintonia con persone che sappiano darti i consigli giusti.
Per me, poi, Gramsci ha un doppio valore: ha fondato l’Unità, il giornale per cui ho lavorato e che per anni è stata una mia seconda famiglia.
All’Unità dal 2001. Abituata al lavoro in redazione, ai rapporti umani. Come cambia il lavoro con la redazione on line, quando ne esiste una, o inviando articoli a un indirizzo email? Com’è trovarsi senza altre persone con cui relazionarsi?
Francesca De Sanctis: Cambia tutto. Di questa metamorfosi che ho subito, da dipendente di una testata a freelance, quello che è rimasto è la scrittura. Quando ero all’Unita, per molti anni ho fatto il vicecapo delle pagine di cultura e spettacolo. Lavoravo al desk, impaginavo articoli, titolavo, partecipavo alle riunioni di redazione. Anche quando sono diventata vicecapo non ho mai rinunciato a scrivere. Per me le due cose devono andare di pari passo. È una cosa che mi insegnò Rita Sala, critico teatrale del Messaggero, con la quale ho lavorato prima di andare all’Unità. Lei mi diceva sempre “Francesca, anche se farai carriera, non mollare mai la scrittura”. Quando è finito il lavoro all’Unità, mi sono aggrappata alla scrittura, del libro e degli articoli. Ho però perso tutta quella parte di lavoro che per me era importante: progettare il giornale, confrontarsi con gli altri.
Ora lavoro isolata davanti al computer: cambia tanto. Sono abituata a lavorare in team, dove magari litighi con le persone, discuti, ma dallo scontro viene fuori qualcosa di vitale. Quando lavori da solo puoi avere splendide idee, le proponi alle testate, ma fai una fatica enorme: provi in continuazione, ma pochi progetti vengono accettati. È faticoso, a volte avvilente. Non avendo questo confronto diretto, ti sembra di vivere in un mondo tuo, alienata dal contesto lavorativo. Ci sono anche le volte che accettano la tua proposta e ti chiedi: ma in quel giornale di cosa si parlerà? Ti manca tutto quello che c’era prima, ti senti slegata, avulsa. Con la pandemia, poi, c’è stata un’altra rivoluzione: negli ultimi quattro anni ho lavorato sola in casa, ma con mio marito in smart working e le figlie senza scuola, ho dovuto rimodulare nuovamente spazi e tempi.
Nel libro scrivi: «Ora che tento di vendere i miei pezzi per due soldi e lo faccio da casa, sono davvero più presente?» Lavorando a casa non ci sono più muri tra vita lavorativa e privata…
Francesca De Sanctis: Questa è un altro aspetto che cambia. Quando lavori in un quotidiano, i ritmi sono frenetici: rientri la sera tardi, ma una volta in casa, il lavoro è finito. Ora lavoro sempre: pensare a cosa scrivere, a chi proporlo, chi chiamare. Il pezzo verrà accettato o no? Le mie figlie mi vedono sempre al pc o col telefono in mano. Non c’è più una separazione tra la sfera privata e quella lavorativa. Prima la separazione era netta, ora è tutto mescolato.
Scorrendo le pagine del libro, arriva la sensazione di una donna con sogni, certezze, obiettivi raggiunti, anche se in una situazione complessa come quella dell’Unità. Ma si percepisce anche una certa solitudine, soprattutto nel tuo convivere con la malattia.
Francesca De Sanctis: Ho sempre avuto problemi a raccontare la mia malattia. Non l’ho mai accettata. Questa è la verità. Quando a ventotto anni ti dicono che hai la miastenia gravis, malattia di cui non hai mai sentito parlare, è scioccante. Me lo ricordo bene quel giorno. Non ero preparata a sentirmi dire “hai una malattia autoimmune”. Ero da sola e sono scoppiata a piangere. A ventotto anni sei giovane, nel pieno delle tue forze. La mia carriera decollava, lavoravo all’Unità, stavo realizzando il mio sogno, ero felice. Ero fidanzata, avevo tanti progetti. Una notizia simile è dura. Ho avuto un moto di rabbia. Mi sono detta: non è possibile che alla mia età io sia malata, non è possibile che il mio corpo non voglia seguire i miei ordini, ho diritto ad essere felice nonostante la miastenia. Mi sono sposata, ho avuto due figlie, continuo a scrivere.
«Voglio ridere, ma non ci riesco. Sento la bocca paralizzata, tutto il viso paralizzato. Continuo a non capire, mi sento a disagio. Sento il mio volto deformarsi, trasformarsi, assumere strane sembianze. Vorrei nascondermi, ma non posso, vorrei fuggire, ma resto incollata alla sedia. Vorrei capire, ma non capisco niente». Racconti così l’inizio del tuo rapporto con Mia, come chiami la tua malattia. Hai cercato di nascondere Mia il più possibile…
Francesca De Sanctis: Prima del libro ne ho parlato pochissimo. È una malattia che non si vede subito. La miastenia causa debolezza muscolare, diplopia, difficoltà respiratorie… ma la gente non se ne accorge. Spiegarla è complicato e così non ne parlavo. Sono malattie che vivi in solitudine. Sono una persona positiva: i problemi ci sono, ma non ne parlo mai.
Alla fine hai affrontato una timectomia, nonostante non ci siano garanzie di successo.
Francesca De Sanctis: La dottoressa mi disse: con l’intervento hai il quaranta percento di possibilità di migliorare. Non mi ha detto: con l’intervento risolvi i tuoi problemi. Ancora adesso non so se li ho risolti. È una possibilità. È un intervento delicato, ma ho deciso di farlo. Anche in quell’occasione l’ho deciso da sola.
Sono solo il quaranta percento di possibilità, ma me la voglio giocare. Non ce la faccio più. Prendo medicine a tutte le ore. Il cortisone ti trasforma, quando mi guardo allo specchio non mi riconosco più.
E anche qui torniamo alla frase iniziale di Gramsci, per cui mi sono rimboccata le maniche e ho tirato fuori la forza che avevo dentro di me. Ho detto: vado avanti!
Subire una timectomia non è come togliere l’appendicite. Tra un mese inizieremo a ridurre il cortisone e vedremo come reagisce il mio fisico. L’obiettivo è ridurre i farmaci. Dalla miastenia gravis non si può guarire, ma riuscire ad avere una vita normale facendo a meno dei farmaci è come essere sani.
Hai anche avuto due bambine.
Francesca De Sanctis: Con questa malattia puoi avere una vita normale. Avere una gravidanza con la miastenia vuol dire aumentare i controlli. Tutto qua.
Ti sei operata in piena pandemia. Sei stata coraggiosa…
Francesca De Sanctis: Mio marito mi è sempre stato accanto nonostante avesse paura. È stato l’unico punto fermo, è l’unico che sa quello che ho passato.
Scrivi: «In quell’oceano popolato di pesci grandi e piccoli, di ogni specie, non mi sentivo solo spaesata, ma diversa, marchiata, anonima. Ero stata privata di qualcosa di molto prezioso, il mio diritto al lavoro. E non potevo far niente per cambiare le cose». L’Unità giace nel silenzio e, con essa, i suoi dipendenti…
Francesca De Sanctis: La questione dell’Unità e dei suoi lavoratori è stata lasciata cadere nel silenzio e, nonostante sia stata un pezzo di storia del nostro Paese, se ne sono dimenticati. È gravissimo. Nel libro, la questione Unità è centrale perché io avevo voglia di raccontare questa storia di cui nessuno vuole parlare. Volevo gridarla! Per me è stato un privilegio lavorare all’Unità. Ho intervistato grandi attori, registi, scrittori: era uno stimolo continuo. Veder morire una testata storica senza che nessuno abbia alzato un dito, è un dolore inimmaginabile. Mi sento un’operaia, una che “faceva” il giornale. Siamo tanti, non sono l’unica. Siamo operai rimasti senza lavoro e nessuno si è preoccupato di noi. È anche un modo per dare voce agli altri miei colleghi. La situazione è paradossale.
Il giornale non c’è dal 2017. Prima siamo stati messi in Cassa integrazione. Poi avremmo dovuto essere riassunti o licenziati per aver acceso alla disoccupazione. Non siamo mai stati licenziati. Siamo in una fase di limbo: formalmente dipendenti dell’Unità, ma senza stipendio né giornale. Nel frattempo è scoppiata la pandemia, quindi non possiamo essere licenziati perché c’è il blocco dei licenziamenti. Per tutto il 2020 non ho avuto un euro. Il ministero avrebbe dato l’ok per darci qualche mese di cassa integrazione covid. Ma resta il problema che siamo lavoratori sospesi.
Nel mondo del giornalismo non siete gli unici lavoratori sospesi o sui quali è calato il silenzio. Ci sono anche tutti i “collaboratori” sottopagati o addirittura non retribuiti…
Francesca De Sanctis: La questione delle collaborazioni è scandalosa. Conoscevo il problema dei collaboratori, anche noi ne avevamo. Ma ho scoperto grandi gruppi editoriali che pagano cifre irrisorie. Gli editori devono capire che i pezzi vanno pagati di più. Fare il giornalista non è una professione che si improvvisa. Un articolo richiede del tempo per informarti e scriverlo. Non si può pagare un pezzo cinque euro. Dopo l’uscita del mio libro mi hanno scritto tante donne, soprattutto giornaliste freelance, che mi hanno testimoniato la loro situazione. Dovremmo dire tutti: no, a quella cifra non lavoro. È umiliante.
Oltre a demotivare le persone, perdi la qualità della professione. Ma oggi, utilizzando la rete, chiunque può scrivere, e nel caos dell’informazione online non sempre trovi la stessa competenza.
Sei una giornalista. In questo settore le donne sono molte, ma raramente raggiungono livelli dirigenziali. Le donne riescono a fare rete?
Francesca De Sanctis: Una direttrice donna l’Unità l’ha avuta, Concita De Gregorio. In generale, per le donne è ancora complicato fare questo mestiere, devono ogni volta dimostrare quanto valgono.
Quando è possibile, le donne fanno rete. In questi quattro anni ho visto uomini farmi la guerra: colleghi che conosco da anni, con i quali ho condiviso viaggi di lavoro; nel momento in cui sono stata costretta a fare la freelance, chiamavano in redazione per ostacolarmi.
Ma ci sono anche donne che sanno apprezzare la qualità del tuo lavoro e sono disposte a darti fiducia, come mi è capitato all’Espresso, dove la stima reciproca di una collega mi ha permesso di scrivere quando mi sono trovata senza lavoro. Come collaboratrice esterna, certo, ma di questi tempi è già un grande risultato, soprattutto per chi come me segue principalmente il settore teatrale.
Credo molto nella rete fra donne. Sono stata assunta all’Unità grazie a una donna, Stefania Scateni, direttrice delle pagine cultura e spettacolo. Entrai come stagista e lei mi ha assunta. È importante fare rete. I problemi li ho avuti soprattutto con gli uomini. Per le donne ancora oggi è complicato. È una questione culturale difficile da scardinare. Il punto di forza che abbiamo è fare bene il nostro lavoro. Il problema è che dobbiamo faticare il doppio. Se sbagli è la fine. Se sei donna non puoi permetterti di sbagliare.
Nonostante sul lavoro tu abbia vissuto “una vita al contrario”, oggi, da freelance, credi che per una giornalista valgano ancora le parole di Gramsci «occorre proporsi di fare solo ciò che si sa e si può fare e andare per la propria via»?
Francesca De Sanctis: Quando ami questo mestiere, sì. A volte mi sono chiesta se ne valesse ancora la pena, ma non riesco a mollare il mio sogno. Fare questa professione, scrivere, mi rende felice. Ho la mia famiglia, mio marito, le mie figlie, ma è una parte di me. Un pezzo di famiglia per me era anche l’Unità. Se non smetto, nonostante le difficoltà economiche, la malattia, il mercato dell’editoria che è cambiato, è perché so che sarei infelice. A queste condizioni, da freelance, se insisto è solo per passione. Altrimenti avrei già fatto altro. Ma il lavoro va retribuito. Per questo ho fatto una scelta ben precisa: gratis no e non a meno di una certa cifra. Sicuramente è un mercato da regolamentare.