Non è freddo, è Vinicio Marchioni: marito, padre, artista. Dopo il lockdown, anche falegname. Un uomo che ha trasformato un ostacolo, la sua balbuzie, nell’opportunità di diventare un attore. Recita dai tempi dell’università, studiando anche con il grande Luca Ronconi, ma quel successo che bacia pochi fortunati, non arriva subito. Non demorde e, come ogni giovane attore che si rispetti, fa anche, per un breve periodo, il cameriere.
Chiunque affronti una diversità, poi, sa quanto sia determinante la tenacia, conosce la fatica per raggiungere ogni obiettivo, impara a creare strategie alternative per arrivare dove altri arrivano prima. Tutto questo forma il carattere. L’amore per la letteratura, la scrittura, il teatro, lo studio dei grandi autori, fanno il resto. Aggiungi una spruzzata di fortuna, e per Vinicio Marchioni arriva la parte nella serie cult Romanzo Criminale. Da lì è stato un crescendo di ruoli e di incontri e, nel suo ultimo film, L’uomo del labirinto, lo abbiamo visto recitare accanto a Toni Servillo e Dustin Hoffman.
Ricorda Virna Lisi, quando ad Hollywood non capivano perché non vivesse come una diva: per lei recitare era un lavoro da fare con professionalità, ma la sera amava tornare a casa dalla sua famiglia. Vinicio Marchioni ha la stessa qualità, quel mix di modestia e amore per la sua arte, ma senza dimenticare che la realtà è fatta di altro: di affetti, di amicizia, di quotidianità. I riflettori sono belli, ma finché restano sul set.
Dopo il lockdown, Vinicio Marchioni ricomincia dal Napoli Teatro Festival, con una lettura drammatizzata del celebre Caligola di Camus. Il 18 luglio sarà a Pietralcina, dove è già soldout, e il 26 nel Cortile della Reggia di Capodimonte. Oggi è con noi.
Al Napoli Teatro Festival legge Caligola di Camus. Cosa la ha attratta di questo testo? Lo trova attuale?
Mi interessa, nel mio lavoro, tutto ciò che riesce ad essere superiore a qualsiasi tipo di contemporaneità. Mi affascina molto, di questo testo, la visione del potere che è forte davanti a qualsiasi cosa, quasi fosse illimitato. Personalmente non trovo nessun appiglio alla realtà di quello che stiamo vivendo in questi ultimi anni, perché siamo davanti ad una visione talmente meschina, legata a piccoli interessi personali, che non ha niente a che vedere con il grande potere di cui parla Camus. L’imperatore che mette in scena Camus è appassionato di poesia, di arte, è un filosofo. Cerca addirittura di sostituirsi agli dèi.
È la messa in scena del potere per eccellenza contrapposta a una visione filosofica: da una parte c’è il personaggio di Cherea, l’eminenza grigia che non vuole che nella visione del potere entrino in gioco la filosofia, la poesia, addirittura la danza; dall’altro l’onnipotenza di Caligola. È rendersi conto che non può esistere autenticità nell’amministrazione del potere.
I dualismi mi affascinano molto, forse è anche per questo che ho scelto Caligola.
Recitare un personaggio costringe un attore a scavare dentro sé stesso. Cosa ha scoperto di Vinicio interpretando il Freddo?
È successo talmente tanti anni fa che non me lo ricordo nemmeno. In ogni personaggio c’è qualcosa di noi ma, contemporaneamente, ogni personaggio è completamente costruito dall’attore. Quindi, aldilà della grande fortuna che mi ha portato quell’interpretazione, per la quale ringrazierò sempre, l’ho trattato come tutti gli altri personaggi che ho interpretato.
E viaggiando dentro Čechov, cosa ha trovato?
Ho trovato un grande maestro, uno zio anziano che mi dà dei consigli. Ho trovato compassione, una grande libertà e, soprattutto, una grande leggerezza che forse prima non avevo. Mi ha insegnato un grande rispetto verso il mio mestiere, mi hai insegnato a non preoccuparmi più di tanto di quello che gli altri si aspettano da me o di trovare conferme da parte del mondo esterno. Approfondendolo, ho imparato a stare chiuso nei laboratori creativi perché, quello dell’attore e del regista, è un mestiere che si fa in grande solitudine. E questa solitudine va accettata, va coltivata. Čechov mi ha insegnato che potevo fare molto più di quanto sapessi fare.
Teatri chiusi, spettacoli dal vivo ridotti al minimo. Quello che ha realizzato Ruggero Cappuccio a Napoli con il Napoli Teatro Festival è straordinario. A livello governativo sono state fatte tante promesse, ma mancano aiuti concreti e una strategia. Il comparto è in ginocchio. Gli artisti famosi, quanto hanno usato la loro popolarità per aiutare tutti gli “invisibili” dello spettacolo?
Abbiamo cercato di fare qualcosa di pratico costituendo un’associazione di categoria, che stiamo perfezionando, e il nostro obiettivo è dialogare con le altre associazioni di categoria. Il problema grande è riuscire a parlare tra di noi. Purtroppo, le persone si fermano soltanto ai nomi noti, ignorando tutte le persone che lavorano dietro ad ogni attore famoso: lavoratori che sono nel caos e che non hanno nessun tipo di ammortizzatore sociale.
Per molti noi siamo dei privilegiati che fanno qualcosa di divertente prendendo un sacco di soldi, mentre, in realtà, bisogna costruire da zero la consapevolezza che siamo dei lavoratori. Creare qualsiasi spettacolo richiede mesi di studio e di lavoro. Un lavoro misterioso, per chi non lo conosce. Ci tengo a far capire al pubblico, innanzitutto il fatto che quando si parla di attori, attrici, interpreti, si parla di migliaia di lavoratori dello spettacolo. Non si parla solo di intrattenimento: non siamo persone che non hanno altro da fare, dei privilegiati, ma persone che hanno le spalle anni di studio e di preparazione.
E questo vale per tutti: sia per gli attori noti che per quelli meno noti. Per l’opinione pubblica esiste il mondo dello spettacolo, senza rendersi conto che parliamo di un settore che comprende teatro, cinema, televisione, audiovisivo. Ma per avere risposte concrete da chi ci governa, dobbiamo essere uniti. Il nostro è un ambiente diviso, dove spesso si parla male gli uni degli altri. Per questo dobbiamo cercare innanzitutto di rispettarci tra di noi, rispettare quello che ognuno di noi fa. Continuando ad essere una categoria frammentatissima, non raggiungeremo mai dei numeri tali da poter avere risposte da chi ci governa.
Rai1 ha appena mandato in onda La tempesta perfetta, il docufilm sul concerto di Vasco Rossi a Modena di tre anni fa, dove lei è la voce narrante. Noi siamo una generazione che è cresciuta insieme a Vasco, l’abbiamo visto diventare grande. Oggi lei è un artista affermato che ha lavorato con lui. Si è sentito ancora un adolescente accanto al suo idolo? Si è mai alla pari con un mito con il quale si è cresciuti?
Non si è mai alla pari con un mito, soprattutto quando si chiama Vasco Rossi… Semplicemente per il fatto che lui oggi ha quarant’anni di carriera sovrumana e tutti noi dobbiamo ancora fare tantissima strada ma, soprattutto, perché non tutti quanti abbiamo creato capolavori che sono rimasti nella storia.
Io non mi sono mai sentito alla pari con un mito, neanche quando Pepsy Romanoff mi ha chiamato per il video di “Un mondo migliore” e poi mi ha dato l’opportunità di essere presente alle prove di Modena Park. Essere lì, sul palco, avere la fortuna di passare del tempo insieme a Vasco Rossi, è stato un grande insegnamento, perché se hai quarant’anni di carriera e continui a fare quello che ami, se continui a farlo ad altissimi livelli, devi essere un artista sovrumano. Ho imparato che devi arrivare per primo, conoscere ogni persona che fa parte del tuo ambiente più stretto; che devi pretendere il meglio soprattutto da te, per poi chiedere agli altri di poter fare il meglio per te. Questo è quello che mi ha dato poter passare qualche giorno con lui.
Ha lavorato con artisti del calibro di Woody Allen, Penelope Cruz, Vasco Rossi, eppure, parlando con lei, mi colpisce la sua semplicità, come se fosse un uomo che la sera tira giù il sipario, spegne le luci e va a casa dalla sua famiglia. Si può fare questo mestiere senza subire la fama?
Se hai la pretesa di portare in scena degli esseri umani, devi conoscerli e per strada ci devi andare, il tram lo devi prendere. La vita reale ti protegge dall’idiosincrasia, dallo stress, dalla tentazione delle grandi luci che ti chiamano.
Questo è un mestiere che faccio perché amo farlo dentro di me, non perché amo me stesso all’interno di questo mestiere.
La vita reale è meravigliosa, ma questo lavoro è talmente totalizzante che rischia di cancellartela la vita se vivi solo per quello. Il segreto è non dimenticare che ci sono tantissime cose da fare. Durante la quarantena ho iniziato a fare il falegname ed è bellissimo.
Sento la necessità di fare qualcosa di realmente pratico, di lavorare nel senso di sentire che mi fanno male le mani, non solo leggere o stare sui libri a studiare: è la cosa che amo di più, però ho anche bisogno di fare qualcosa che abbia una sua fisicità, che abbia un risultato pratico che si vede subito. Quando fai un film non sai come andrà, non sai come verrà montato, non sai mai la visione del regista qual è.
Anche durante uno spettacolo teatrale, inizi le prove ma non sai come verrà alla fine. Non solo, ma queste cose, alla fine, diventano proprietà di chi le guarda, mentre la vita reale ti dà la possibilità di fare cose che sono solo per te, senza lo stress di essere sotto il giudizio di tutti.
Che rapporto ha con i suoi figli?
Non lo so, bisognerebbe chiederlo a loro, magari quando saranno più grandi. Cerco di avere molta pazienza e credo di essere riuscito ad instaurare un dialogo vero con loro. Sono un padre divertente, mi diverto molto con loro, ma quando serve so anche essere severo.
Mi impegno, comunque, a costruire un dialogo con loro che riesca a superare la crescenza e spero di avere sempre la loro fiducia.
Lei e sua moglie, come molte altre categorie di lavoratori, non avete orari, non avete feste: come conciliate lavoro, figli, famiglia?
Lavoriamo sempre! Da questo punto di vista siamo più fortunati di altri perché avendo fondato una Art-house per creare spettacoli di nostra produzione, facciamo le riunioni di anche di notte, oppure quando riusciamo ad andare a prendere un caffè da soli. E poi ci dividiamo il più possibile le cose da fare. La parte peggiore se la prende mia moglie Milena.
Lo dico perché bisogna riconoscere che noi uomini lavoriamo, ma voi donne lavorate il 400% in più a causa di un retaggio antico, per cui della casa se ne occupa la donna, dei figli se ne occupa la donna. Invece, per quanto possibile, cerco davvero di trovare la maniera per far sì che anche Milena abbia lo spazio giusto per pensare, per riflettere, anche per fare degli errori. Perché un artista, se non sbaglia, non crea: invece molto spesso siamo costretti a fare le cose come se fossimo in una catena di montaggio della creatività, che contempla tutto meno la creatività, meno la possibilità di fare degli errori.
Lavorando insieme, la grande bellezza è che ci divertiamo moltissimo.
Non c’è nessuna divisione tra il lavoro che si fa dentro la famiglia e quello che si fa per il nostro mestiere. E questo, credo sia un grandissimo privilegio.
Il successo dà tanto. Ma c’è qualcosa che le ha tolto?
Il fatto di essere anonimo. Secondo me, un attore dovrebbe essere il più anonimo possibile, invece la popolarità, il Freddo, tutto quello che mi è successo, che è straordinario e per cui ringrazierò per tutta la vita, mi ha tolto la spontaneità delle persone che incontro. Nell’opinione di chi ti guarda, arriva sempre prima quell’immagine e poi arrivo io.
Però lei è riuscito a liberarsi da quello che rischiava di diventare uno stereotipo…
Negli ultimi 10 anni, il grande lavoro che ho fatto è stato questo riappropriarmi della possibilità, come attore, di fare qualsiasi cosa. Sarebbe stato sicuramente molto più comodo accettare di fare tutti i ruoli da cattivo o da poliziotto per la televisione, piuttosto che recitare in teatro o fare altre scelte che ho fatto fino ad ora. Scelte difficili, forse meno commerciali, ma che mi hanno dato la possibilità di lavorare con Sergio Castellitto, Paul Haggis, Paolo Genovese, con Woody Allen e con tanti altri registi straordinari, proprio grazie a quella credibilità che ho costruito e di cui sono immensamente orgoglioso.
Per i limiti che la popolarità ti crea, credo che l’unica strada sia quella di allontanarsi dei social, farsi vedere solo quando si esce con un film. Purtroppo viviamo in un mondo in cui se non sei popolare da quel punto di vista, i produttori si fidano meno.
Cerco comunque di dare sempre visibilità a quello che faccio attraverso i miei social, perché penso sia una questione di rispetto nei confronti dei festival e dei teatri che mi ospitano.