Debutta in prima nazionale al Napoli Teatro Festival, domenica 5 luglio nel Cortile D’onore del Palazzo Reale di Napoli alle ore 21, Scarpe Rosse, scritto da Maria Rosaria Omaggio, in collaborazione con Maria Letizia Compatangelo. Lo spettacolo mette in scena la memoria delle donne vittime di femminicidio, fenomeno antropologico, purtroppo ancora attuale, che ha origine nella Storia antica.
Maria Rosaria Omaggio, attrice di cinema e teatro, scrittrice, donna colta e raffinata, ambasciatrice Unicef, studiosa di antropologia, affronta un tema attualissimo, partendo dalla memoria. «Dobbiamo parlare delle donne del passato – dice – se vogliamo curare e redimere il presente, andando all’origine del senso di proprietà che l’uomo nutre da sempre nei confronti della donna».
Il progetto ha il patrocinio di UNICEF Italia, della quale Maria Rosaria Omaggio è Goodwill Ambassador dal 2005, SalvaMamme e la Valigia di salvataggio, Women for Women Against Violence, Mai Più Violenza Infinita e il CENDIC- Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea.
Appena giunta a Napoli, ci dedica pochi preziosi minuti durante le prove.
Maria Rosaria, favole come Cenerentola, hanno fatto sognare bambine per generazioni. Il principe non le chiede neanche “come ti chiami”. Il titolo del suo spettacolo, Scarpe Rosse, è il titolo di una favola dove la bambina viene punita per aver desiderato quelle scarpe rosse e, per liberarsene, è costretta ad amputare i suoi piedi. Quanto, ancora oggi, le favole trasmettono valori maschilisti, punitivi nei confronti delle donne?
Bisognerebbe chiederlo ai bambini. Le favole incoraggiano sempre. Sono in realtà l’unico modo di avvicinarsi alla realtà, anche i testi sacri sono in qualche modo delle parabole, delle fiabe. La metafora aiuta sempre l’essere umano. Se parliamo soltanto della fiaba del principe azzurro, sicuramente sia le mamme che i papà dovrebbero fare una revisione del racconto. In questo modo avremmo meno problemi. Se l’essere maschile ha sempre considerato la donna qualcosa di sua proprietà, dipende anche da come vengono educati i ragazzi. Forse ancora oggi un ragazzo e una ragazza vengono educati in maniera differente. Questo forse non è giusto, ma si può correggere.
Come affronta un tema così delicato?
Io faccio questo spettacolo sulla memoria del femminicidio in forma di spettacolo, con proiezioni multimediali del video artist Mino La Franca, con la danza coreografata da Antonella Perazzo, con le musiche di Gianluca Perazzo e Mario Perazzo. Sul palco ricreiamo atmosfere, luoghi e epoche diverse, ma la condanna è la stessa. Alcune delle donne rappresentate sono Lucrezia di Collatino, Pia de’ Tolomei, Francesca da Rimini, Artemisia Gentileschi, Beatrice Cenci. Maria sarà, invece, colei che rappresenta le donne morte in Italia per femminicidio durante il recente lockdown del 2020.
Per ogni testimonianza, verranno portate a bordo palco scarpe rosse, ognuna della foggia della sua epoca, e illuminate di volta in volta da una colonna di luce. Alla fine, tutte accese, creeranno le sbarre di una prigione, con all’interno un unico doloroso avvenimento, che prosegue dall’antichità ai nostri giorni. Ma quelle sbarre verranno aperte e la luce accecante potrà invadere il palco.
Pino Quartullo interpreta tutti gli uomini, io tutte le donne. E tutti insieme creiamo una suggestione di luoghi, persone, immagini, che diventano quasi deposizioni all’interno di un racconto molto accattivante ed emozionante.
Perché ha deciso di scrivere questo testo?
Mi sembrava giusto dare un segno. Lo avevo promesso a Barbara, una donna che ha subito violenza e per fortuna non è morta, ma subito ventisette operazioni per ricostruire la sua pelle. Quando l’ho incontrata, durante un evento organizzato da Women for Women Against Violence, le promisi che avrei fatto qualcosa. Poi la vita ti dà dei segnali. Mi è capitato di interpretare le rime di Isabella Morra, uccisa dai fratelli. In quell’occasione ho incontrato l’italianista Stella Fanelli, grazie alla quale ho scoperto che una mia antenata, Eleonora Alvarez de Toledo, era morta per femminicidio. È stata una serie di segnali mi ha condotto a fare questo spettacolo.
Cosa non è cambiato, nonostante le battaglie fatte, per cui oggi siamo ancora costretti a parlare di femminicidio?
Non è cambiato il fatto che l’uomo ritiene in cuor suo che la donna sia una sua proprietà. Ancora oggi, nell’opinione di molti, se un ragazzo fa una bravata e non torna la notte perché ha messo le corna alla fidanzatina, il papà e la mamma gli fanno un sorriso, magari compiaciuti. Se lo fa una ragazza, è una tragedia. Quindi non è cambiato molto.
Per chiudere una relazione ci sono mille modi. La violenza è una scelta…
La violenza è una follia non è una scelta. La violenza è una deviazione mentale.
È un punto di vista. Perché allora parliamo di raptus, quando parliamo di un uomo che ha ucciso una donna?
Per lo stesso motivo per cui si continua a sottolineare com’era vestita lei, quasi fosse una colpa.
Si è chiesta perché ancora oggi quando una donna si sente dire “non è colpa mia, sei tu che…” sceglie di continuare a subire?
Io non sono una psicologa di un centro antiviolenza, sono solo un artista che racconta uno spettacolo che apre molte domande. Il mio lavoro è quello di aprire domande non quello di dare risposte. Di sollecitare attraverso il teatro, nella sua forma più antica, quella di teatro civile, che tratta argomenti importanti e che non sia soltanto un barboso incontro o conferenza, ma che sia qualcosa che faccia riflettere, che crei domande.
Nel suo spettacolo si tocca anche tutto l’aspetto delle violenze psicologiche, che appartengono a tutto un linguaggio che oggi, purtroppo, è spesso accettato?
Io parlo delle donne che fin dall’antichità hanno subito. Il mio è uno spettacolo che stimola domande. Come diceva Flaiano “solo in teatro si ritrovano i simboli delle cose perdute di vista”.