Certe immagini e certe date diventano fortemente rappresentative, nella storia di un Paese. La foto simbolo del 23 maggio 1992 immortala un cumulo di macerie e macchine sventrate, sulla corsia di un’autostrada. In alto, un cartello stradale indica l’uscita di Capaci. Sullo sfondo, forze dell’ordine e persone di passaggio guardano quel panorama desolato chiedendosi cosa sia accaduto: ma in fondo, lo sanno già.
E lo sapeva anche Giovanni Falcone, come sarebbe finita. Non sapeva quando, non sapeva come, non sapeva dove, ma sapeva che a porre fine alla sua vita sarebbe stata la mafia. Lo sapeva anche Paolo Borsellino, che dopo quel 23 maggio 1992 parlando di sé stesso si definiva «un cadavere che cammina». In occasione del 28esimo anniversario dalla strage che lungo l’autostrada A29 uccise il magistrato antimafia Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, Rai Radio3 alle 20.30 manderà in onda Pizzo, canti di denuncia. Lo spettacolo, di Riccardo Lanzarone con musiche di Fabio Gesmundo, è stato realizzato con il sostegno di Addiopizzo, Mat Teatro e Reh Recording Studio.
Il 23 maggio 2020, anniversario della strage di Capaci, in onda alle 20.30 su Radio3 Rai, il debutto nazionale di "Pizzo, canti di denuncia, spettacolo di Riccardo Lanzarone con le musiche di Fabio Gesmundo.Il progetto nasce dal prezioso incontro con il Comitato Addiopizzo, un movimento aperto che nasce a Palermo e che agisce dal basso, facendosi portavoce di una “rivoluzione culturale” contro la mafia. Una raccolta di racconti sul mondo del racket in Italia con l’obiettivo di sensibilizzare e diffondere la lotta al racket sonorizzati dal vivo. Lo spettacolo è realizzato con il supporto di MAT teatro e REH – Recording Studio.
Publiée par Riccardo Lanzarone Attore sur Mardi 19 mai 2020
Quando hai cominciato a lavorare allo spettacolo?
L’idea è nata lo scorso anno, in primavera. Vidi un servizio in tv in cui una persona denunciava un caso di estorsione. Lui era riuscito a liberarsi dai suoi estortori, ma non mi piaceva la modalità che aveva scelto per dirlo. Si mostrava agli occhi del mondo come un eroe e questa cosa mi ha terrorizzato, perché mi sono messo nei panni di chi il coraggio di denunciare non lo ha ancora trovato. Vedere una persona che si mostra così forte, a tratti spavalda, non fa un grande servizio a chi ancora non è riuscito a liberarsi da questo male. Allora ho iniziato a lavorare al progetto, per non far passare l’idea che per opporsi al racket della mafia serva chissà quale coraggio. Denunciare è la normalità: tutti siamo in grado di farlo.
Qual è il tuo rapporto col Comitato Addiopizzo?
Il primo passo che ho fatto è stato andare a Palermo a parlare con loro: il movimento si fa portavoce di una rivoluzione culturale contro la mafia. Ho chiesto supporto e informazioni. Loro mi hanno aperto le loro porte e mi hanno fatto incontrare molte vittime di estorsioni. Le storie che racconto, infatti, sono tutte storie vere, ma romanzate.
Quante storie presenti? Che ruolo ha la musica nella performance?
Racconto cinque storie più quella di Libero Grassi, la più nota. Lo spettacolo parte proprio dalle sue parole: lui nel 1991 fu il primo a denunciare la mafia. La musica è centrale, perché si tratta di un concerto-spettacolo, è una lettura scenica sonorizzata: io scrivevo e il musicista componeva contemporaneamente. Infatti la musica è sempre presente, è fondamentale. Anche perché mi aiuta a creare atmosfere in cui evocare immagini con le mie parole.
Cosa vuol dire in senso ampio “pagare il pizzo”?
Ci sono commercianti che pagano alla mafia anche solo 50 euro. Mi sono chiesto: cosa porta a livello economico, nel sistema della criminalità, avere 50 euro al mese da una piccola bottega? Il punto è che non è il valore economico: è il valore culturale, il senso di schiavitù e controllo, che abbassa la qualità della nostra vita, della nostra offerta, del nostro mercato. È una predominanza mentale: siete tutti nel mio libro, dovete parlare con me, che tu mi dia 20 o 1000 euro il tuo interlocutore e referente sono io per qualsiasi cosa. Paradossalmente è come dire: da oggi ti proteggo io!
Chi denuncia è adeguatamente supportato dalle istituzioni?
Adesso sì. Una cosa agghiacciante è quella che accade ogni anno, in occasione dell’anniversario della morte di Libero Grassi. La famiglia appende un piccolo manifesto e scrive: «Libero Grassi, imprenditore, uomo coraggioso: ucciso dalla mafia, dall’omertà dell’Associazione degli Industriali, dall’indifferenza dei partiti e dall’assenza dello Stato». Lui è stato abbandonato, non ha avuto nessuno che l’ha sostenuto, mentre adesso per fortuna non si è più soli, anche grazie all’operato del Comitato Addiopizzo. Nello spettacolo infatti racconto anche una vicenda degli anni Settanta: un titolare di bar chiuse dopo un mese dall’apertura perché sapeva di non avere nessuno che lo potesse aiutare contro le continue minacce che subiva. Alla terza richiesta di pagare il pizzo, ha abbassato la saracinesca, ha rinunciato alla sua attività.
Nel tuo percorso di attore e regista ti eri già confrontato con questi temi?
Assolutamente sì. Il mio primo spettacolo si chiamava Codice nero e parlava di malasanità: ci ho impiegato sei anni a scriverlo! Mi soffermavo su quello che accade a un paziente durante l’attesa in ospedale, che è un luogo in cui il tempo si sospende. Il mio secondo spettacolo, invece, era alla Black Mirror, ambientato in un futuro lontano dove la gente potrà farsi giustizia da sola. Io quando scrivo provo sempre a partire da paure umane: mafia, criminalità, potere, sono tutte cose che mi terrorizzano, ma ne scrivo con la speranza che possano fare da catarsi.
Porterai in scena lo spettacolo, a fine emergenza?
Lo spettacolo nasce per quello! Ma soprattutto vorrei portarlo nelle scuole. Quello che vorrei è che grazie alle testimonianze delle vittime, questo spettacolo possa infondere nello spettatore speranza: la mafia non è invincibile! La mia è la testimonianza di gente che ce l’ha fatta, che ha detto no! L’educazione alla legalità è una cosa delicata e va trasmessa anche nelle scuole. A volte mi capita che non prendano i miei spettacoli perché non sanno come giustificarli all’interno del loro percorso formativo. Parlare di questi temi invece è fondamentale, apre allo spirito critico e alla riflessione sulla vita quotidiana.
A tal proposito, che futuro vedi, nei prossimi mesi, per il teatro, uno dei settori che più sta pagando la situazione attuale?
Penso che l’arte si sappia adattare agli eventi storici. Di certo sono venute a galla debolezze e fragilità preesistenti nel sistema, una su tutte non legata tanto alla burocrazia, ma proprio al senso collettivo del lavoro. In questi anni si è giocato al ribasso. Io mi auguro che oltre a risolvere le cose concrete (paghe, contratti), ognuno di noi ritrovi il senso etico del lavoro. Se tutti rispettiamo la fatica del nostro lavoro, le cose possono cambiare. Per quanto riguarda il teatro: in scena ovviamente non si può andare, ma bisogna ampliare la nostra visione, i nostri mezzi per comunicare attraverso l’arte. Esiste la scrittura, esiste il video. Il teatro può riadattarsi. Inutile abbattersi davanti agli ostacoli. Ora ci sono direttive precise, c’è un rischio sanitario concreto: contro questo non si può fare nulla. Si può, però, inventarsi qualcosa, sperando di tornare presto a teatro senza la paura di stare accanto ad altre persone. Il teatro è anche questo: il piacere di vivere un’emozione accanto a uno sconosciuto.