Lo Chef Joao Jay Monteiro nasce in Portogallo e cresce negli Stati Uniti, e la sua cucina ha nel DNA la consapevolezza che ogni Paese, attraverso il cibo, racconti la propria storia e il proprio modo di vivere, in un continuo gioco di equilibrio tra tradizione e novità, autenticità e contaminazione, accomunati da curiosità e passione
La “sfida alla creatività culinaria” che lo rende “chef dalle mille possibilità gastronomiche”, si snoda infatti attraverso le diverse influenze che caratterizzano la sua formazione ed è per Chef Monteiro il fil rouge della sua carriera: dopo aver assorbito la cultura americana e dopo aver frequentato la scuola di cucina di Porto, arricchisce il suo bagaglio altamente professionalizzato con esperienze in Svezia ed Italia. Con la Mission di rendere la tavola il primo passo per socializzare, Chef Monteiro coniuga nella realizzazione dei suoi piatti – dove l’occhio è colpito dall’esplosione di colori, che anticipa il mix di ingredienti- il piacere della condivisione e la soddisfazione del piacere altrui. Un piacere del corpo e della mente. A fine 2019 Chef Monteiro è entrato alla guida della cucina del Ristorante Bottiglieria Pigneto di Roma.
Hai girato un po’ tutto il mondo ed hai sperimentato cucine diverse. Una parola per la cucina statunitense?
È una cucina da scoprire, penso che venga un po’ sottovalutata. Le persone conoscono solo gli hamburger, e tendono ad associare il cibo americano allo junk food. invece nella cucina degli Stati del Sud, come ad esempio la Louisiana, ci sono molti piatti da scoprire. Oppure nelle ricette della California, dove già negli anni ’70 c’era la cultura dei cibi a Km 0 e degli ingredienti di stagione, che era una novità per quell’epoca. La cucina californiana è molto più light, forse anche per via del clima più caldo. In generale è vero però che la cucina statunitense sia più grassa della nostra, ma del resto anche quella francese o quella tedesca lo sono.
Invece la cucina portoghese? È più simile a quella italiana?
Si molto. Ricorda parecchio la cucina regionale toscana. In Portogallo si preparano tanti minestroni, è una cucina povera, dove ci si inventano le ricette con gli ingredienti che si trovano a disposizione.
In Svezia come si mangia?
La cucina svedese di base è molto simile a quella tedesca: molta carne, insalata e salse. Ma anche in Svezia ci sono molti piatti interessanti, soprattutto a livello delle marinature e delle conserve. C’è molto pesce, come le aringhe e il salmone che vengono preparati con marinature particolari. E poi usano la carne sotto sale, molte pietanze vengono essiccate per via del clima, l’inverno lì dura otto mesi ed è molto rigido. Coltivano ed essiccano anche le radici, che possono essere tenute in cantina senza che vadano a male. Gli svedesi hanno una tradizione che forse qua in Italia si è persa: nel periodo autunnale e primaverile vanno per i boschi a raccogliere bacche e funghi. Per loro è un’abitudine che si tramanda da nonno in nipote. La trovo una cosa molto carina.
Come mai dopo aver girato tutto il mondo hai deciso di stabilirti in Italia?
Un po’ per motivi personali, e un po’ per motivi professionali. E poi diciamo che dopo aver vissuto cinque anni in Svezia avevo bisogno di sole! Al freddo ci si abitua, ma stare al buio per tanti mesi all’anno è una cosa tostissima.
Tu porti la commistione dei gusti di tutti i paesi dove hai vissuto nei tuoi piatti?
Si, è quasi inevitabile. Noi siamo la somma di tutto quello che abbiamo vissuto. E poi cerco di differenziarmi dagli altri, nel mio lavoro.
Qual è l’ingrediente che non manca mai nelle tue ricette?
L’amore! (ride, n.d.r.)
E quello che invece preferisci non usare?
Non mi metto questi limiti, dipende da cosa preparo, ma non ci sono ingredienti che escludo a priori. Uso poco i soffritti, preferisco stufare le verdure mettendo un goccio d’acqua nell’olio. In questo modo si elimina l’acidità della cipolla o dell’aglio.
Sei più per la tradizione o per la sperimentazione?
Cerco di essere all’avanguardia senza essere trendy. Se dovessi scegliere, preferirei la tradizione alle mode del momento.
Se non avessi fatto lo chef, cosa avresti voluto fare? Come ti vedevi da bambino?
Ho attraversato varie fasi. Quando ero teenager mi sarebbe piaciuto scrivere. Poi ho sviluppato un grande amore per il cinema, forse perché vengo da un paesino molto piccolo, e sia il cinema che la letteratura erano modi per evadere.
È vero che tua mamma è tornata in Portogallo dagli Stati Uniti, per farti nascere lì?
Si, i miei genitori vivevano già negli Stati Uniti, ma mia mamma alla fine della gravidanza ha avuto nostalgia di casa ed è tornata in Portogallo per farmi nascere. Poi ho trascorso l’infanzia a Boston, e sono tornato in Portogallo quando avevo dieci anni.
Segui i programmi Tv sulla gastronomia?
Qualcuno si, anche se alcuni di questi show creano dei personaggi che talvolta danno delle idee sbagliate sulla cucina.
Ti piacerebbe fare Masterchef?
Si, in generale mi piace fare esperienze nuove, lo trovo molto interessante e stimolante.
C’è un cuoco al quale ti ispiri?
Anthony Bourdain, non soltanto per la cucina ma per il modo in cui vedeva il cibo e per il fatto che viaggiava molto e assaggiava i piatti dei vari Paesi senza preconcetti, come poi ho fatto io. Sono contento di aver conosciuto il suo lavoro molto presto, il suo libro “Il viaggio di un cuoco” è stato una grande ispirazione per me.
Cosa significa per te cucinare?
Cucinare per me è un atto di altruismo. Quando cucino metto da parte il mio ego. Non mi interessa diventare famoso, ma trasmettere qualcosa agli altri. Cucinare è un modo di comunicare, di mettere in connessione le persone, i sapori e le varie culture del mondo.